L’intervento di Cristian Pancisi, sindacalista e presidente del circolo Acli di San Martino in Strada, all’incontro organizzato dal circolo Acli di Cà Ossi mercoledì 14 settembre 2022.

 

Per prima cosa ringrazio gli amici Massimo Barasi, Alberto Dina per l’invito, ringrazio Don Davide Medri per l’ospitalità e tutti voi presenti per essere venuti a confrontarvi sul tema del lavoro, perché io sono qui per ragionare con voi, per stimolare il dibattito e l’appetito, visto che dopo ceneremo assieme, non per un monologo.

 

Io sono Cristian Pancisi e di mestiere faccio il sindacalista o, come piace chiamarlo a me, il redistributore. Come sappiamo, attraverso il lavoro la ricchezza si moltiplica, lo scopo del mio mestiere è quello di dividerla, il più equamente possibile. La prima operazione è molto difficile, la seconda ancor più complicata.

 

Di quali settori mi occupo, ovvero qual è il mio punto di vista? Seguo industria e artigianato, dei settori di moda, chimica ed energia, ho quindi a che fare con micro-imprese con cinque sei dipendenti, con imprese familiari e con ben dieci multinazionali.

Questi settori sono economicamente solidi, spesso in controtendenza rispetto all’andamento generale, anche se negli anni si sono visti diversi ridimensionamenti, persino chiusure, specialmente nel settore della moda.

 

I settori che seguo sono purtroppo tutti molto inquinanti, il comparto della chimica è al primo posto, il comparto della moda, forse sarete sorpresi, al secondo, per quel che riguarda l’energia, ne parliamo tutti i giorni…

Sono chiamati pertanto ad una trasformazione radicale, e per fortuna nel nostro territorio ci sono eccellenze in materia.

 

Ma veniamo al tema, il lavoro, o meglio il buon lavoro, quello che la maggioranza di noi cerca. Per parlarvene in questi giorni mi sono riletto diversi documenti di dottrina sociale, ovvero quella parte di dottrina morale attraverso la quale la Chiesa ha cominciato ad affrontare i problemi di natura sociale ed economica del mondo contemporaneo, a partire dal 1891, con l’enciclica Rerum Novarum.

 

Alla fine, però, ho deciso di non cominciare la mia riflessione con uno spunto specifico sul lavoro, ma l’esclamazione probabilmente più famosa di Giovanni Paolo Secondo, quella con cui cominciò il suo pontificato: “Non abbiate paura!”.

 

Cari amici, io credo che sia assolutamente necessario seguire questo consiglio quando si parla di lavoro, credo che dovremmo ripetere quotidianamente questa esclamazione, perché mi pare che l’emozione preponderante, quella che più influenza le nostre scelte, sia proprio la paura.

 

Perché la paura ha uno spazio così importante quando si parla di lavoro? In parte è naturale, questa fonte di sostentamento ha nella sua essenza una componente precaria, perché il lavoro è movimento, azione, trasformazione, è dover affrontare problemi, è conquista quotidiana, in sostanza si fonda su un equilibrio che potremmo perdere.

 

In parte credo che questa preziosa ma pericolosa emozione ci sia stata indotta dal difficile contesto economico e sociale di questi anni. Mi pare siano tre in particolare gli eventi che hanno incrementato in noi la sensazione di pericolo di perdita dell’occupazione: la globalizzazione (ci sentiamo in concorrenza con il mondo, temiamo che il nostro lavoro possa essere svolto ovunque, a minor prezzo), la crisi economica del 2008-2011 (le persone oggi spesso sottolineano se lavorano in un’azienda che non ha mai saltato uno stipendio, prima di questi anni veniva dato quasi per scontato che se lavoravi saresti stato retribuito, che la tua azienda avrebbe avuto un futuro, che non saresti rimasto disoccupato) e la trasformazione digitale (il cambiamento è diventato repentino e costante, in tanti lavori gli uomini saranno sostituiti dai robot).

 

La nostra paura dunque ha più di un buon argomento ma, probabilmente, ci impedisce di vedere che le trasformazioni non sono per forza un elemento negativo, dalle trasformazioni arrivano anche opportunità.

Dopo la pandemia abbiamo assistito ad un cambiamento assai importante per il mercato del lavoro: nel nostro paese non si trovano più lavoratori. Mancano medici, mancano insegnanti, mancano tecnici ma non solo: le fabbriche non trovano operai e molti alberghi e ristoranti quest’estate hanno ridotto i servizi a causa di mancanza di manodopera. Dunque, non si sono realizzate alcune profezie apocalittiche su globalizzazione e trasformazione digitale, parrebbe stia avvenendo proprio il contrario. Perché?

 

Qualcuno sostiene sia responsabilità degli ammortizzatori sociali, in particolare il reddito di cittadinanza, io non entro nel merito di un argomento al centro della campagna elettorale, piuttosto allargo lo sguardo e provo a cercare anche altre cause. Per me è miope non accorgersi che il nostro paese ha un enorme problema demografico e l’assenza di giovani (oltre alla loro emigrazione, perché spesso non riusciamo a trattenere chi ha le migliori competenze) non può che ripercuotersi sul mondo produttivo.

Inoltre, durante la pandemia molte persone hanno cambiato le loro priorità, hanno deciso che il lavoro non deve più essere un’esperienza totalizzante, per questo è aumentato significativamente il numero di dimissioni volontarie.

Un’altra questione rilevante è la differenza tra le competenze richieste e il percorso di studi proposto ai nostri studenti. Su questo punto mi piacerebbe conoscere il vostro parere: ha senso studiare criminologia se il mercato richiede ingegneri?

 

Io credo che ai nostri figli non si debba chiedere cosa vuoi studiare ma che lavoro vuoi fare nella vita, per costruire poi un percorso di studi coerente e raccontare al ragazzo la verità, ovvero che non tutti i percorsi offrono le stesse opportunità per cui, se vuoi fare il criminologo, devi sapere che per trovare un lavoro coerente dovrai avere un percorso di studi brillante, che è molto più probabile ti debba trasferire, che avrai retribuzioni più basse.

 

Se quindi è chiaro che mancano lavoratori e competenze perché vedo tante persone spaventate dalla perdita del loro impiego, perché tante persone hanno timore di mostrare il loro punto di vista al superiore, perché non c’è una forte pressione sui sindacati per riequilibrare il rapporto tra capitale e lavoro?

 

Purtroppo, credo buona parte della risposta a queste tre domande sia: molti lavoratori non hanno autostima.

 

Per avere autostima devo avere consapevolezza e sono moltissime le persone che non si sanno valutare correttamente, circa metà dei lavoratori si sottovaluta, non è consapevole del valore che offre all’impresa (l’altra si sopravvaluta, e qui nascono altri problemi…).

Un esempio: la propensione all’insegnamento. In tutte le imprese ci sono persone a cui vengono affidati i nuovi arrivati e sono sempre le stesse, perché sono disponibili a trasmettere le loro conoscenze, sono socievoli e pazienti. Bene, perché la maggioranza dei lavoratori non chiede un euro per questa attività?

(tema dell’accoglienza centrale, spesso trascurato dai datori, voi scegliete il vostro datore…).

Devo dire che purtroppo quasi nessun contratto prevede il pagamento un riconoscimento economico per lo svolgimento di questo compito.

 

Un altro esempio? La coordinatrice degli insegnanti di sostegno dell’Alberghiero: cinquanta persone da coordinare e nessun riconoscimento economico. Questa persona lavora giorno e notte, altro che diciotto ore settimanali e non chiede nulla, è accettabile?

C’è una regola aurea di cui tener conto in un ambiente economico: “L’azienda si prende lo spazio che gli concedi”. Soprattutto le persone che hanno un’indole generosa e servizievole ne devono tenere conto, perché c’è sempre qualcuno pronto ad approfittarsene.

 

A ben vedere c’è un’altra ragione per cui la maggioranza di noi è sempre così spaventata: il senso di solitudine. L’individualismo ci spinge alla competizione non alla collaborazione, per cui il mio collega diventa il mio avversario, non qualcuno che ha il mio stesso problema, con cui potrei coalizzarmi per risolverlo. La privazione del senso di comunità rende più deboli la stragrande maggioranza dei lavoratori. Dobbiamo tornare ad identificarci nel collega, per arrivare a pensarlo come alleato.

 

Infine, voglio affrontare un altro tema: la paura di esporsi, l’incapacità di sostenere una discussione all’interno del posto di lavoro. A volte in fabbrica s’incontrano superiori molto aggressivi, ma chi l’ha detto che un responsabile ha più stima di chi gli dice sempre di sì? Sono molti i lavoratori che non espongono il loro pensiero per timore di perdere una posizione, una promozione, ma non credo sia l’atteggiamento giusto. In un’azienda è molto importante poter dire la verità, anche per il destino dell’impresa stessa. Certo, se parliamo solo quando non ne possiamo più sarà molto difficile essere costruttivi, ma se non solleviamo questioni quando serve come pensiamo di poter ottenere un lavoro dignitoso, equo, sicuro e solidale?

 

In conclusione: è molto improbabile che la soluzione ai nostri problemi possa sempre arrivare da un terzo, sia esso il legislatore, l’ispettorato del lavoro o l’ASL. Serve una cultura che rispetti l’uomo e il lavoro, serve un patto sociale condiviso, serve il tuo impegno, serve il nostro impegno, magari organizzato dal sindacato, per andare oltre la paura, lo sfruttamento, il disagio, l’iniquità. Grazie.

 

14/09/2022                                             Cristian Pancisi