Nel quarto anno dalla morte, il ricordo del poeta dialettale Mario Vespignani

Mario Vespignani

Domenica 6 ottobre sono trascorsi 4 anni dalla morte di Mario Vespignani, uno dei poeti dialettali romagnoli più conosciuti e apprezzati della nostra terra. Ma definirlo solo poeta dialettale è riduttivo. Egli era giornalista pubblicista, autore di diversi testi e paroliere in vernacolo di tante canzoni. Per diverse volte si aggiudicò il primo premio del “Campanòn”, festival della canzone romagnola che si svolgeva a Cesena. La sua specialità erano le “zirudèle” componimenti dialettali in cui prevale la vena satirica e pungente. Il dualismo di due grandi del dialetto romagnolo, Olindo Guerrini “Stecchetti” e Aldo Spallicci “Spaldo” lo vide appoggiare senza riserve quest’ultimo.

Da lui imparai che la lingua imparata in campagna, a Bussecchio, durante gli anni della mia infanzia non era lessico di serie B, che le maestre sanzionavano con la matita blu quando sfuggiva qualche espressione dialettale nei componimenti a tema libero. Mi insegnò che la lingua usata prevalentemente dalle classi popolari non era (non è) per questo di minor valore e di minore dignità. Ora che il dialetto è (ahinoi) molto meno diffuso di una volta e sicuramente meno parlato ci si è resi conto di quale perdita incalcolabile si rischi se la “lingua del cuore e dei sentimenti” dovesse estinguersi del tutto.

Moltissime le poesie da lui composte e pubblicate in agili libretti di cui mi faceva dono e che conservo con cura. Come non ricordare “Batèsta”, attualissima nei suoi significati sul trasformismo politico in un mondo, quello di oggi, in cui i cambi di giacca non sono spesso dettati da motivazioni ideali. Oppure tra le canzoni come dimenticare: “Partigiàn senza nòm”. Per molti anni era stato attivo e dinamico organizzatore dei trebbi della “Piè” veri e propri presìdi di difesa nell’uso del dialetto.

Ma a me piace ricordare Mario Vespignani per una “zirùdella” che riguarda il suo ingresso nel mondo del lavoro. Appena diplomato perìto elettrotecnico, fece per 10 anni il camionista, girando l’Italia con un autotreno con rimorchio, vita dura che non avrebbe mai scordato. E proprio al rimorchio dedicò uno straordinario componimento, a questo ingombro che si comporta proprio come certe persone che ognuno di noi ha, almeno una volta, sicuramente incontrato. Un ingombro che quando sei in salita ti trascina verso il basso e invece, quando sei in discesa, spinge, si agita e sembra che voglia passare. I casi della vita vollero che le nostre scrivanìe, per 11 anni, fossero affiancate e molte delle poche cose che ho imparato me le insegnasse lui.

ENNIO GELOSI