ITINERARIO NELLA STORIA DEL CODICE ANTICO

Al circolo Acli di Magliano l’incontro con Francesca Berardi sulla biblioteca Malatestiana

“Nell’era di internet non dimentichiamo il libro”, questo il tema della serata al circolo Acli di Magliano, svoltasi il 4 luglio con Francesca Berardi di Artemisia Associazione, guida alla Biblioteca Malatestiana di Cesena, gioiello architettonico voluto dal signore Domenico Malatesta Novello.

 

Di seguito, la relazione completa di Francesca Berardi, anticipata in forma di intervista sulla pagina Acli sul n.28 de Il Momento.

 

All’interno della Biblioteca Malatestiana di Cesena, splendido esempio di biblioteca monastico umanistica, fatta costruire a metà del Quattrocento dal signore della città Domenico Malatesta Novello, si conserva uno straordinario patrimonio librario, costituito da numerosi codici, di epoca medievale e rinascimentale, che offrono l’opportunità di percorrere un itinerario nel mondo del libro antico.

 

In passato il libro non ha sempre avuto la forma e l’aspetto di quelli odierni, ma nell’antichità, fino almeno al II sec. d. C. si presentava prevalentemente, anche se non esclusivamente, sotto forma di rotolo, la cui materia prima era in origine il papiro. Noto e ampiamente utilizzato dagli Egiziani, il papiro, ottenuto dalla lavorazione dell’omonima pianta che cresceva spontanea lungo le rive del Nilo, si diffuse soprattutto nell’area mediterranea e rimase a lungo il principale supporto scrittorio. Con il papiro si realizzavano libri in forma di rotolo (volumina), formati da più fogli incollati l’uno all’altro e arrotolati attorno ad uno o più bastoncini, che venivano utilizzati nel mondo greco e romano per uso letterario. Per gli usi correnti ci si serviva delle tavolette di legno cerate, su cui si incideva con uno stilo, e che, unite tra loro per mezzo di cerniere o anelli di corda, prendevano il nome di codex.

 

Successivamente questo termine passò ad indicare la forma del libro contrapposto al rotolo papiraceo; con codice, quindi, si intende un libro costituito da un insieme di fogli piegati in due (bifogli), assemblati in fascicoli, ossia inseriti l’uno dentro l’altro, e cuciti con l’ausilio di un filo passante lungo la linea di piegatura, non dissimile, dunque, dall’odierno volume a stampa. I vantaggi rispetto al rotolo (capienza, maneggevolezza, facilità di riferimento testuali, maggiore garanzia di conservazione ) ne imposero definitivamente l’uso entro il IV secolo d.C.

 

In Occidente, dalla caduta dell’Impero romano fino alla fine del XII secolo circa, la storia del libro è strettamente legata al monachesimo: per tutto questo tempo a detenere il monopolio, o quasi, della produzione dei codici furono i monasteri e i luoghi di culto. A partire dal XIII secolo, in seguito alla fondazione delle università e al diffondersi della cultura, si ebbe un considerevole aumento della richiesta di libri, e ciò portò alla realizzazione di codici anche in luoghi esterni ai monasteri, in botteghe in cui lavoravano artigiani laici.

 

L’affermazione del codice determinò anche il progressivo abbandono del papiro e la sua completa sostituzione con la pergamena.

La pergamena è un materiale di origine animale, ricavato dalle pelli di animali come pecore, capre, montoni, agnelli e vitelli; i codici quattrocenteschi, commissionati appositamente da Malatesta Novello per la sua biblioteca, sono stati tutti realizzati con pregiate pelli di capretto. Grazie ad alcune ricette, reperite in manoscritti medievali, siamo in grado di ricostruire le fasi essenziali della fabbricazione di questo nuovo materiale scrittorio, più resistente del papiro, ma in realtà già noto, anche se usato raramente, nel mondo antico.

 

Il procedimento attraverso cui la pelle diventava pergamena era lungo e laborioso. Le fasi principali erano: l’immersione, per alcuni giorni, in un bagno di acqua e calce, per favorire lo scioglimento dei grassi e l’eliminazione dei pali, e l’asciugatura su telaio. Le fibre di collagene presenti nella pelle, grazie alla tensione a cui erano sottoposte, si allineavano rendendola adatta a ricevere l’inchiostro e i pigmenti per colorare. I peli rimasti ed eventuali residui di epidermide venivano eliminati con un coltello a mezzaluna. Tolta dal telaio, la pergamena veniva raschiata e levigata con la pietra pomice o altre sostanze abrasive e schiarenti in modo da renderla liscia ed uniforme.

Procuratesi le pergamene, il copista, prima di procedere alla ricopiatura del testo originale posto su di un leggio, provvedeva alla piegatura delle pelli e alla preparazione del foglio, cioè tracciava le righe per assicurare la regolarità della scrittura, utilizzando un righello e lo stilo di piombo.

 

Finalmente il copista si accingeva a trascrivere il testo, utilizzando un bastoncino di giunco di palude, detto calamo, oppure una piuma di volatile, oca o tacchino, più leggera e maneggevole, tagliata in fogge diverse per consentire scritture più o meno spesse e contrastate. Per la scrittura su pergamena si utilizzava essenzialmente un inchiostro ferro gallico, composto dal tannino, un estratto vegetale, che si otteneva per lo più dalla cottura o macerazione in acqua fredda della noce di galla, escrescenza prodotta dalla puntura di insetti sui rami di certe specie di querce, e che veniva fatto reagire con un sale metallico (solfato di ferro). L’inchiostro era posto in un corno rovesciato oppure in un contenitore chiamato calamaio.

 

Il copista poteva disporre anche di un raschietto, un coltello con la lama ricurva, usato per cancellare eventuali errori, o per tenere ferma la pagina mentre scriveva. Terminato il lavoro, il copista, nel colophon, ossia nella parte finale, poteva svelare la propria identità, o fornire indicazioni preziose sui committenti, il luogo, la data e le circostanze della copia. Queste informazioni compaiono con maggiore frequenza nei manoscritti tardomedievali, mentre nell’alto medioevo tale lavoro faceva parte delle attività manuali, umili ed anonime, offerte dai monaci al Signore, in cambio della salvezza dell’anima. Il copista poteva anche aggiungere espressioni di sollievo per la fatica terminata, lodi, ringraziamenti e preghiere a Dio, ma a volte anche richieste terrene o annotazioni spiritose.

 

Fra i copisti, per lo più laici, sia italiani che stranieri, che a metà del Quattrocento lavoravano a Cesena, al servizio di Malatesta Novello, dando vita a quello che viene definito scriptorium malatestiano, troviamo Mathias Kuler, proveniente dal Nord Europa, che affermò in una nota finale di un codice di amare il buon vino e le donne e si divertì a concluderne un altro con la frase:” scritto con le mani, non con i piedi”. Alla fase della scrittura seguiva quella della decorazione che spettava al miniatore. Il termine miniatura deriva dal latino minium (ossido salino di piombo), un pigmento dall’accesa tonalità rossa, con cui si coloravano le lettere iniziali dei testi. Da quest’uso con tale termine si è passati ad indicare una pittura di piccole dimensioni, ricca di dettagli e di particolari, che può essere realizzata su qualunque supporto.

 

Se nel corso dei secoli e dal punto di vista stilistico la miniatura si è costantemente modificata, tecnicamente essa ha mantenuto inalterati i momenti essenziali della sua esecuzione. Per prima cosa il miniatore tracciava sul foglio, l’abbozzo, ossia il disegno preparatorio di ciò che intendeva dipingere, poi passava ad ornare con l’oro, fondi, aureole o particolari importanti. Il procedimento più diffuso per la doratura prevedeva l’utilizzo di lamine sottilissime di oro, ritagliate nelle forme desiderate ed incollate alla pergamena grazie ad uno strato adesivo composto da colle naturali e dal bolo, un’argilla friabile e untuosa in genere di colore rossiccio. Per rendere l’oro ancora più lucente si eseguiva la brunitura, cioè lo sfregamento della lamina con un dente di animale (ad es. cane o lupo) o con pietra d’agata.

 

A questo punto il miniatore poteva procedere alla stesura dei colori, prima per larghe campiture poi, dopo che questi si erano asciugati, proseguiva colorando le parti più piccole; infine a secco, con grande cura, si rifinivano i particolari, come le pieghe delle vesti, i capelli, gli occhi. I miniatori lavoravano all’interno di monasteri o in botteghe, oppure, in qualità di artisti indipendenti, venivano chiamati da signori e principi presso diverse corti, prima tardogotiche poi rinascimentali, per realizzare opere sempre più preziose e lussuose a lustro dei committenti e delle loro raccolte librarie.

 

Accanto allo scriptorium malatestiano è possibile, quindi, immaginare una bottega di miniatori, più o meno fissa, che, insieme ad artisti presenti solo occasionalmente, ha lavorato per la realizzazione delle parti decorative e figurative che abbelliscono i codici cesenati. I miniatori dovevano occuparsi anche della preparazione dei colori che, per aderire alla pergamena, venivano mescolati ad una sostanza legante, come ad esempio l’albume dell’uovo o la gomma arabica. I colori possono essere riuniti in due grandi gruppi: quelli naturali, ricavati cioè da sostanze animali, vegetali e minerali, come il blu, chiamato oltremare, formato da polvere di lapislazzuli, una pietra semipreziosa, e quelli artificiali che richiedevano la reazione chimica fra più elementi, come il nero, preparato utilizzando i carboni dei tralci di vite.

 

Nella bottega del miniatore abbondavano pennelli di diverse dimensioni, realizzati con peli di animali, come la coda dello scoiattolo, spatole per mescolare i colori, pestelli e tanti altri strumenti necessari alla realizzazione dell’arte miniatoria. Le raffinate miniature dei codici malatestiani presentano caratteri stilistici e di gusto riconducibili alla figura del committente; il loro repertorio figurativo e ornamentale è pervaso da molteplici tendenze stilistiche, le stesse che guidavano la politica culturale e artistica dei Malatesti nelle numerose corti del loro stato: accanto al classicismo rinascimentale predominante, convive, in misura minore, un più tradizionale gusto goticheggiante e cortese.

 

Dopo che anche le decorazioni erano state portate a termine, i legatori completavano il lavoro, cucendo i fogli assemblati in fascicoli, a robuste assi di legno, chiamate piatti, che venivano foderate da coperte di cuoio, elegantemente decorate per impressione, adoperando punzoni di metallo. Il legatore aggiungeva su entrambi i piatti, agli angoli e al centro, delle borchie metalliche di diversa foggia per proteggere il cuoio dall’usura e dagli sfregamenti dovuti ai leggii e agli scaffali su cui i libri erano disposti orizzontalmente. I codici malatestiani completati, infine, erano forniti della catenella in ferro battuto, per mezzo della quale venivano fissati al banco della biblioteca ad essi assegnato.

 

I codici, usciti dallo scriptorium malatestiano, sono prodotti di lusso, come attestato dalla pergamena impiegata, quella di capretto, finissima, sottile e chiara, estremamente pregiata, dalle miniature che si aggiungono ad impreziosire i testi scritti, e dalle legature raffinate, ma al tempo stesso assai robuste, proprio perché a queste era affidata la durata del libro nel tempo. Questi codici, scritti per la maggior parte in elegante e ariosa grafia umanistica, detta littera antiqua, rispecchiano il colto mecenatismo di stampo umanistico del loro committente. I testi infatti comprendono opere di autori classici greci e latini, Padri della Chiesa e, in particolar modo, testi di carattere storico, vera passione di Malatesta Novello. La loro realizzazione comportò per il signore una spesa ingentissima, che lo qualificherà in eterno come munifico patrono delle arti e delle lettere.

Relazione di Francesca Berardi di Artemisia Associazione, tenuta a Magliano Teatro parrocchiale nella serata del 4 luglio 2022 dal locale circolo Acli