Tutte queste drammatiche vicende furono sistematicamente raccontate sul bollettino dell’Istituto Storico della Resistenza (Istituto allora presieduto da Ottorino Bartolini) in un saggio di Paola Saiani. Storia poi ripresa e amplificata dalla rivista “Una Città” che portò nel corso degli anni successivi alla sepoltura in due monumenti funebri dei resti mortali di quanti avevano trovato la morte in località Ronco.
Da allora si è aperta una fase di ricerca storica sugli stessi avvenimenti che dura tutt’ora (nel corso degli ultimi anni se ne sono occupati anche studenti universitari della sede di Forlì), così come si sono organizzate cerimonie e convegni per ricordare tutti coloro che furono perseguitati in città dal momento della promulgazione delle leggi razziali e gli uccisi in località Ronco. Il ricordo di questo eccidio ha costituito ogni anno uno dei momenti più significativi degli appuntamenti che vengono proposti nell’ambito delle manifestazioni che ricordano la Liberazione di Forlì e dell’Italia. Tutto questo dovrebbe trovare, a mio avviso, un ulteriore modo per coinvolgere i cittadini forlivesi. È per questo che da tempo ho proposto, e lo ripropongo ora, di valutare la possibilità di collocare nei luoghi più significativi della persecuzione ebraica avvenuta in città le cosiddette “Pietre d’inciampo”, come già avvenuto in altre città sia in Italia sia in Europa su idea dell’artista tedesco Gunther Demnig per “depositare”, nel tessuto urbanistico e sociale della nostra città una memoria diffusa dei cittadini deportati nei campi di concentramento o uccisi. L’iniziativa consisterebbe nell’incorporare nei marciapiedi o sul suolo stradale, davanti alle abitazioni o ai negozi delle vittime, e davanti ai luoghi della detenzione e dell’uccisione, dei blocchi in pietra muniti di una piastra in ottone sulla quale incidere il nome della persona (o delle persone), l’anno di nascita, la data, l’eventuale luogo di deportazione e la data di morte, se conosciuta.
Nel caso di Forlì si tratterebbe di effettuare queste operazioni, ad esempio, davanti all’ex Albergo Commercio (dove è già presente una lapide), alla Casa Circondariale, all’ex befotrofio, all’ex Caserma Caterina Sforza, in via Seganti, in Piazza Saffi dove erano presenti le attività commerciali delle famiglie Matatia e Saralvo, in via Cairoli angolo via Giorgio Regnoli dove sorgeva il Villino Saralvo confiscato ai legittimi proprietari, davanti all’edificio degli ex uffici della ditta Becchi progettato dall’ingegnere di origine ebraica Luigi Szegò, il quale nel 1940 fu cancellato dall’Ordine degli Ingegneri per poi essere riammesso nel 1946, a San Biagio dove ha operato don Pietro Garbin anche a favore di ebrei perseguitati, ecc. Questo tipo di informazioni intende ridare un’individualità a chi si voleva ridurre solo a un numero.
Gabriele Zelli