Prepararsi al Referendum: la storia della riforma e i suoi pro e contro

Il 20 e il 21 settembre 2020 si terrà il referendum confermativo della legge costituzionale che prevede la riduzione di circa un terzo del numero dei componenti delle Camere. Come si è arrivati a questa riforma della Costituzione? Quali sono i pro e i contro che essa comporterà, in termini di risparmio economico, efficienza e credibilità del Parlamento, rappresentanza dei cittadini? Riportiamo qui per esteso l’articolo di Giuseppe Riggio pubblicato sulla rivista “Aggiornamenti Sociali”.

Inizialmente previsto per il 29 marzo scorso, ma rinviato a causa della pandemia, il referendum confermativo del testo di legge costituzionale che riduce di un terzo il numero dei parlamentari italiani (da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori) si terrà domenica 20 e lunedì 21 settembre, in concomitanza con le elezioni regionali e amministrative. La riforma interviene in modo circoscritto sul testo costituzionale, modificandone solo tre articoli (artt. 56, 57 e 59 Cost.). Non è la prima volta che questi articoli sono riscritti: l’attuale disciplina, che prevede un numero fisso di deputati e senatori, è stata introdotta nella III legislatura repubblicana (L. cost. 9 febbraio 1963, n. 2). In Assemblea costituente era prevalsa l’opzione di prevedere un numero di parlamentari variabile, in base alla popolazione italiana. Più precisamente, si stabiliva l’elezione di un deputato ogni 80mila abitanti (o frazioni superiori a 40mila) e di un senatore ogni 200mila abitanti (o frazioni superiori a 100mila).

Nel corso dei lavori dell’Assemblea più volte variarono queste soglie – e, infine, venne scelta quella più bassa – e si dibatté per individuare quella che favorisse nel modo migliore una stretta relazione tra elettori ed eletti, ritenuta un fattore chiave per la stabilità democratica del Paese appena uscito dal fascismo. La riforma del 1963 fu essenzialmente dettata dalla necessità di rimediare allo squilibrio numerico tra Camera e Senato: per la prima venne mantenuto “un quoziente di rappresentatività non discosto di fatto da quello risultante dall’applicazione della originaria formulazione” costituzionale, mentre per il secondo fu innalzato il numero dei membri, per assicurare al sistema bicamerale “maggiori garanzie di organico funzionamento” (Servizio studi del Senato 2019, 7). Nelle ultime legislature, la questione del numero dei parlamentari è stata puntualmente sollevata in occasione del dibattito sulle riforme istituzionali, collegata ad altre modifiche per rivedere il bicameralismo perfetto della nostra Costituzione, per cui le due Camere si trovano in una condizione paritaria, con i medesimi poteri e funzioni. Le varie proposte di riforma – dal testo della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali presieduta da Massimo D’Alema nel 1997 alle riforme della II Parte della Costituzione del Governo Berlusconi del 2005 o del Governo Renzi del 2016, entrambe non approvate nei referendum confermativi – convergevano nella scelta di ridurre i parlamentari, proponendo di volta in volta cifre diverse per le due Camere, comunque superiori al numero complessivo di 600 parlamentari fissato nella recente riforma (ivi, 8-10).

L’iter di approvazione

L’iter legislativo della riforma della riduzione dei parlamentari – inserita nel “contratto di governo” del primo Governo Conte sostenuto da Movimento 5 Stelle (M5S) e Lega – ha preso le mosse in Parlamento nel 2018 a partire da tre disegni di legge, presentati da senatori di diversi partiti politici 2, che non presentavano sostanziali differenze a livello dei contenuti. L’iter di approvazione è stato abbastanza rapido, se si considera che l’art. 138 Cost. per le leggi di revisione costituzionale prevede la doppia approvazione da parte delle due Camere. Infatti, il primo voto favorevole al testo si registra il 7 febbraio al Senato e il 9 maggio 2019 alla Camera; l’approvazione in seconda lettura giunge l’11 luglio al Senato e l’8 ottobre dello stesso anno alla Camera. Nell’arco di questo periodo – e più precisamente nell’estate del 2019, poco dopo il secondo voto favorevole del Senato – vi è stato il cambio della maggioranza parlamentare, con la nascita del secondo Governo Conte, sostenuto da M5S e Partito democratico (PD). Questo evento non solo non ha ritardato il percorso parlamentare della riforma, ma ha determinato un ampliamento delle forze politiche favorevoli alla sua adozione. Infatti, i parlamentari del PD, che si erano espressi in modo negativo nei tre precedenti voti, hanno votato a favore nell’ultimo passaggio parlamentare alla Camera. La riforma non è entrata subito in vigore perché 71 senatori, appartenenti a diversi partiti (Forza Italia, Lega, M5S, PD, Italia viva e gruppo misto), hanno richiesto di sottoporla al voto popolare secondo quanto previsto dall’art.
138 Cost.

Il contenuto della riforma

A livello di contenuto la legge approvata prevede una riduzione del 36,5% dei parlamentari (da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori), senza però motivare perché si siano scelte queste cifre. Anche il numero dei parlamentari della Circoscrizione estero è ridotto, così saranno eletti 8 deputati invece che 12 e 4 senatori invece che 6. Un’altra modifica introdotta nell’art. 57 Cost. riguarda il numero minimo di senatori eletti per Regione. Attualmente nessuna Regione può avere meno di 7 senatori ed è espressamente previsto che il Molise abbia 2 senatori e la Valle d’Aosta 1. La riforma non modifica questo punto, mentre abbassa a 3 il numero minimo di senatori eletti per Regione ed estende questa previsione anche alle Province autonome di Trento e Bolzano. Ovviamente la riforma determina un aumento del rapporto tra numero di elettori ed eletti. In base ai calcoli realizzati dal Servizio studi del Senato, tale rapporto passa in media da 96.006 a 151.210 per i deputati, mentre il numero medio di abitanti per ciascun senatore cresce da 188.424 a 302.420 (ivi, 11).

I dati seguenti permettono di fare un raffronto tra l’attuale disciplina italiana, quella che risulterebbe se la riforma fosse approvata nel prossimo referendum e alcuni Paesi europei. Se si guarda al numero di deputati in relazione alla popolazione in alcuni Stati europei (i dati sono aggiornati al 1° gennaio 2018), questo è quanto ne risulta: 151 deputati in Croazia su una popolazione di 4.105.493 abitanti, 27.189 abitanti per deputato e 3,7 deputati per 100mila abitanti; 349 deputati in Svezia su una popolazione di 10.120.242 abitanti, 28.998 abitanti per deputato e 3,4 deputati per 100mila abitanti; 230 deputati in Portogallo su una popolazione di 10.291.027 abitanti, 44.744 abitanti per deputato e 2,2 deputati per 100mila abitanti; 460 deputati in Polonia su una popolazione di 37.976.687 abitanti, 82.558 abitanti per deputato e 1,2 deputati per 100mila abitanti; 630 deputati in Italia (attualmente) su una popolazione di 60.483.973 abitanti, 96.006 abitanti per deputato e 1 deputato per 100mila abitanti; 650 deputati nel Regno Unito su una popolazione di 66.238.007 abitanti, 101.905 abitanti per deputato e 1 deputato per 100mila abitanti; 577 deputati in Francia su una popolazione di 67.221.943 abitanti, 116.503 abitanti per deputato e 0,9 deputati per 100mila abitanti; 709 deputati in Germania su una popolazione di 82.850.000 abitanti, 116.855 abitanti per deputato e 0,9 deputati per 100mila abitanti; 350 deputati in Spagna su una popolazione di 46.659.302 abitanti, 133.312 abitanti per deputato e 0,8 deputati per 100mila abitanti; secondo la proposta, l’Italia avrebbe 400 deputati su una popolazione di 60.483.973 abitanti, 151.210 abitanti per deputato e 0,7 deputati per 100mila abitanti.

Per ragioni di omogeneità di composizione, il raffronto si limita alle cosiddette “Camere basse”, perché si tratta sempre di assemblee elette direttamente dai cittadini, a differenza delle “Camere alte”, che non sono previste in tutti i Paesi e le cui modalità di formazione sono molto diverse. I dati evidenziano che con la riforma il numero dei deputati italiani per 100mila abitanti si abbassa da 1 a 0,7, costituendo uno dei rapporti più bassi in Europa: è leggermente superiore in altri Paesi europei con una popolazione simile a quella italiana come la Francia (0,9) e il Regno Unito (1). È ben più alto, invece, per i Paesi con una popolazione sensibilmente inferiore. Un’ultima modifica, introdotta nel corso dell’esame parlamentare, riguarda i senatori a vita nominati dal Presidente della Repubblica “per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” (art. 59, c. 2, Cost.). L’attuale formulazione dell’articolo solleva una questione interpretativa, non essendo chiaro se ciascun Presidente della Repubblica possa nominare 5 senatori a vita (come hanno fatto solo due Presidenti: Pertini e Cossiga) oppure se si esclude che vi siano contemporaneamente più di 5 senatori di nomina presidenziale. Il testo della riforma scioglie questo dubbio adottando la seconda interpretazione, al fine di evitare un eccessivo numero di senatori non eletti nel nuovo Senato. Nessun cambiamento è previsto per i “senatori di diritto a vita”: i Presidenti della Repubblica, una volta concluso il loro mandato, saranno automaticamente membri a vita del Senato.

Un’ultima considerazione va formulata sul metodo seguito per la riforma. Ci troviamo di fronte a una riforma costituzionale apparentemente circoscritta, ma che può incidere in modo significativo sulle nostre istituzioni, alterando gli equilibri costituzionali. La scelta politica di realizzare solo puntuali interventi di riforma – maturata da alcune forze politiche, che hanno ritenuto infruttuosa la via, percorsa nel passato, di una revisione complessiva del testo costituzionale – non esime dal dover mettere in cantiere ulteriori iniziative per armonizzare le novità introdotte con le altre parti della Costituzione. Opportunamente sono stati presentati altri disegni di legge costituzionale su temi collegati, come il cambiamento dell’età per l’esercizio dell’elettorato attivo e passivo del Senato o il numero dei delegati regionali che partecipano all’elezione del Presidente della Repubblica, ma i relativi lavori parlamentari non sono prossimi alla conclusione.

Le ragioni della riforma e le sue possibili conseguenze

La lettura delle dichiarazioni ufficiali del Governo e degli atti parlamentari permette di individuare le motivazioni avanzate a sostegno della riforma del numero dei parlamentari. Nella Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza del 2018 si afferma, ad esempio, che “l’Italia attualmente è il Paese europeo con il numero più alto di parlamentari direttamente eletti dal popolo e la riduzione prospettata, oltre a consentire apprezzabili risparmi di spesa, rappresenta uno strumento essenziale per migliorare i processi decisionali della Camere, che potranno operare in modo più efficiente, per rispondere meglio e più tempestivamente alle esigenze dei cittadini” (Ministero dell’Economia e delle Finanze 2018).

a) Il numero dei parlamentari
Una delle ragioni addotte si riferisce, quindi, all’elevato numero di parlamentari eletti rispetto ad altri Paesi europei. Si tratta di un’affermazione fondata se si considerano le cifre assolute, ma da ridimensionare se si esamina il rapporto tra eletti e popolazione italiana (cfr Colasante 2020, 57-61). D’altronde, va tenuto in conto che la rappresentanza politica nel nostro Paese non si esaurisce nel livello nazionale, ma ha un ulteriore livello regionale, che completa e integra il nostro sistema istituzionale. In una visione d’insieme il ridimensionamento degli eletti può essere ritenuto legittimo, aiutando – almeno potenzialmente – a migliorare la selezione dei rappresentanti politici. In questo senso, è stato sostenuto che “la ragione più spendibile per la riduzione del numero dei parlamentari riguarda la qualità dei componenti e il prestigio delle Camere, che negli ultimi decenni si sono enormemente ridotti”, purché la riforma sia accompagnata da “un sistema di selezione democratica delle candidature […] e a un sistema elettorale fondato sulla valorizzazione della volontà del corpo elettorale nella scelta dei suoi rappresentanti” (Volpi 2020, 56).

b) I risparmi economici
È poi menzionato l’argomento economico: il Governo ritiene che l’approvazione della riforma determinerà un risparmio di 100 milioni di euro all’anno, mentre la stima dell’Osservatorio sui Conti pubblici italiani è di 57 milioni annui, ossia lo 0,007% della spesa pubblica italiana (Frattola 2019). Il risparmio riguarderebbe le indennità parlamentari e le spese per l’esercizio del mandato, mentre resterebbe inalterata la spesa per l’insieme dei servizi parlamentari. L’enfasi posta sui risparmi mira a intercettare il sostegno di quell’ampia parte dell’opinione pubblica che giudica eccessivi i costi della politica, però rischia di generare confusione e pressapochismo nel momento in cui non distingue tra le spese necessarie per assicurare il corretto ed efficiente funzionamento delle istituzioni e gli sprechi che si possono annidare all’interno del sistema. La decisione su come votare al prossimo referendum dovrebbe pertanto basarsi sulla valutazione se la riforma migliora la qualità delle nostre istituzioni, più che basarsi sulle conseguenze a livello economico, di per sé modeste.

c) L’efficienza delle Camere
A questo proposito, i documenti ufficiali affermano che la riforma contribuirà a migliorare i processi decisionali del Parlamento, aumentandone l’efficienza e la produttività. Non sono, però, presentati ulteriori elementi per avvalorare queste affermazioni, come se si fondassero su un implicito assioma secondo cui un numero più contenuto di deputati e senatori assicuri di per sé una migliore qualità dei lavori parlamentari. In realtà, non esiste nessun automatismo di questo tipo, tranne per i tempi dei lavori parlamentari, che si ridurranno inevitabilmente per il minor numero di parlamentari che prendono parte al processo legislativo. Tuttavia, i benefici più consistenti della riforma dipendono in buona parte dalle modifiche che dovranno essere introdotte nei regolamenti di Camera e Senato. L’organizzazione dei lavori parlamentari è modellata sull’attuale numero dei membri del Parlamento e una loro riduzione di un terzo avrà un impatto considerevole, ad esempio, sul numero, la composizione e le attribuzioni delle Commissioni parlamentari, degli uffici di garanzia o dei gruppi parlamentari, sulle tempistiche o sui quorum per l’avvio di procedure. La soluzione non può essere data dalla semplice modifica dei quorum o delle soglie previste nei regolamenti, applicando in modo generalizzato riduzioni di un terzo, ma individuando misure adeguate, coerenti con chiari orientamenti di politica istituzionale (cfr Tucciarelli 2020, 175-186).

d) La rappresentanza politica
Un tema che non è menzionato nei documenti ufficiali, ma che va esaminato, è quello delle ripercussioni sulla rappresentanza politica. Come abbiamo visto la riforma innalza il rapporto medio tra eletti ed elettori in entrambi i rami del Parlamento: questo aspetto si traduce in una maggiore difficoltà per le minoranze politiche e sociali di trovare spazio nelle due Camere, oltre a lasciare “nell’ombra molti territori (quelli appenninici, ma anche alcune aree del sud o dell’arco alpino) già afflitti dallo spopolamento e dal declino economico” (Olivetti 2019). Le possibili soluzioni su questo fronte dipendono in parte dalla legge elettorale e dal modo in cui sono definiti i collegi elettorali. Al momento si è avviato il confronto politico su una nuova legge elettorale, ma procede lentamente, mentre il Parlamento ha approvato la L. 27 maggio 2019, n. 51, per permettere che l’attuale legge elettorale possa essere applicata, indipendentemente dal numero di parlamentari previsto in Costituzione, delegando il Governo per la ridefinizione dei perimetri dei collegi uninominali e plurinominali della Camera e del Senato. Questo aspetto della rappresentanza è evidentemente centrale, perché le attese riposte nella riforma di un recupero di autorevolezza e credibilità del nostro Parlamento saranno vanificate se la prevista riduzione del numero dei parlamentari si traduce in un indebolimento del vincolo tra elettori ed eletti a causa della eccessiva grandezza dei collegi elettorali e della diversità sociale al loro interno, finendo così per alimentare ulteriormente le frustrazioni e i sentimenti di antipolitica già presenti nel Paese.